Critica d'arte

ERCOLE PIGNATELLI (o di una bugonia)

Non appena ho iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli ho preso a cercare immagini delle  sue opere nel web e a sfogliare alcuni suoi cataloghi. Generalmente, infatti, mi avvicino agli artisti partendo dalle opere e non dalle biografie o dagli interventi critici che li riguardano; questo perché sono profondamente convinta del fatto che l’arte è una creatura viva e come tale non può essere come primo passo indagata senza in qualche modo offenderla e determinare alla fine una barriera tra noi e la sua voce. In quanto creatura viva, invece, essa va ascoltata, conosciuta empaticamente, cosicché possa scoccare quella sorta di scintilla d’amore che ce la farà conoscere profondamente senza sentire il bisogno di dover di necessità ancorare questa nostra conoscenza ad una minuziosa razionalità, senza dover cercare il messaggio più o meno astruso in una cosa, l’arte appunto, che il messaggio ce lo ha connaturato nel suo essere in quanto comunicazione e bellezza.
Non appena ho iniziato ad interessarmi di Ercole Pignatelli, dicevo, e a guardare le sue opere, mi sono venuti in mente dei versi del poeta che più amo.
“Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe/anche un pensiero…”
e ancora
“e l’azzurro che nasce, a corolle, negli anditi”
 “Vorrei essere fieno sul finire del giorno/ portato alla deriva/ fra campi di tabacco e ulivi…”
Versi di Vittorio Bodini, straordinario poeta contemporaneo (1914-1970), che con il nostro Artista condivide la città natia: Lecce. Io però non lo sapevo. L’ho scoperto solo dopo, quando finalmente mi sono accinta a leggere le note biografiche di Ercole Pignatelli. La cosa mi ha colpito molto, perché mi è apparso evidente che nelle sue opere, pur così europee, così internazionali,  palpita un indomito cuore del Sud che del suo essere ha saputo fare una cifra e non un discorso.
Sono dunque partita da qui, da questa suggestione, per innamorarmi di questo “ragazzo col diavolo in corpo” – come è stato definito da Alessandro Riva- che veleggia col suo intatto bagaglio di infanzia verso porti che non vuol trovare, mozzo per gioco, capitano per destino. E mi sono chiesta cos’è che mi ha riportato a Bodini, anche lui innamorato del suo Salento, anche lui lontano e vicino ad un tempo. Mi sono risposta. Nelle opere di Pignatelli si percepisce un medesimo panismo, un immedesimarsi in un paesaggio talmente interiorizzato che appare dalla sua stessa sparizione, un paesaggio che più si fa vaghezza, sogno, miraggio, più è capace di trasferire suoni, profumi, emozioni.  Se cerchiamo un tratto, infatti, uno solo che sia didascalico di un territorio, che ce lo marchi a fuoco in tutta la sua evidenza,  non lo troveremo mai; troviamo però allusioni simboliche, eco indistinte, memorie svagate che sono tanto più incisive in quanto non ci consentono di “leggere” ma ci costringono a “sentire”. Così, al di là del forte legame con Picasso (legame evidente dagli omaggi riservatigli nonché dichiarato dalla voce stessa di Pignatelli), al di là di una suggestione che resta suggestione mediterranea oltre che fatale incontro di spiriti, mito e fede di questo nostro straordinario artista è la vita. Una vita che è prima di tutto libertà, appartenenza a se stesso, cammino mai vincolato a schemi o a mode o a “maniere”, col gusto di soffermarsi ora, di accelerare il passo poi; vita che è un continuum, un fluire privo di contraddizioni tra spiritualità sfrontata e sacro materialismo.
Giovane, sempre giovane, ventenne ottuagenario, ha mantenuto lo sguardo dei suoi ritratti degli anni ’60 ; ed è quello lo sguardo con cui interroga e racconta l’esistenza, sia quando riscrive in una sorta di sua personale bugonia la vita che rinasce dalle rovine e dalla marcescenza (pensiamo ai “basamenti”, tronchi di colonne da cui sbucano fiori e frutti come capitelli, o ai teschi di animali che si riempiono di miraggi), sia quando il colore sboccia da una figura più inquietante che leggiadra, più allusione che figura ( come in “Vitalità”, opera del 1959, premiata e tanto discussa per essere sostanzialmente figura altra da se stessa).
E questo è sicuramente un altro tratto distintivo di Pignatelli; la sua è una pittura figurativa certo, ma tutt’altro che realista. La figura che si impone sulle sue tele, infatti, sia essa un corpo di donna, una struttura architettonica o una coppa traboccante di frutti, non comunica mai davvero se stessa, non descrive ma evoca. Accade così con le acrobate che, in un assioma di straripante rotondità, si offrono in torsioni innaturali che paradossalmente le naturalizzano, assimilandole ai lussureggianti elementi vegetali che le accompagnano; accade così con le rabdomanti che sembrano germinare da tralci turgidi, nascoste ed esposte coi loro rossi succosi come bacche mature, come appetibili coccole, insidie di un bosco incantato. Mai insomma la figura racconta, nemmeno con le geometrie ora arabeggianti ora metafisiche delle masserie che infrangono lo spazio-tempo e sono luoghi dell’immanenza e della trascendenza, terra e miraggio, paesaggi biblici sospesi eppure immagini della memoria dove l’acqua, a fiotti dai rubinetti o in rissa nel mare, è voce che spezza incantesimi e silenzi; le masserie, ove il bianco della calce salentina ( “…e tornerà/ il bianco per un attimo a brillare/ della calce, regina arsa e concreta/ di questi umili luoghi…” scriveva Bodini)  lascia posto a colori sognanti, vibranti di ombre di lune, sovrastati dalla sproporzione di alberi e frutti, uniformati dalla controra o dai notturni, sono luoghi dell’anima, sono favola bella contemplata a tratti, a tratti allontanata e minacciata da presenze ambigue, come i serpenti che non sai se hanno voglia di aggiungere o di togliere vita.
E poi c’è il colore, il colore che è protagonista assoluto, l’uno plurale che domina ovunque in ogni sfumatura e mai sfumato, mai incerto. Il colore è figura più della figura stessa, è proiezione del verbo. Tenue, lussurioso, incandescente, sia quando si offre uniforme in un piano, sia quando si strugge nell’ardimento di una marina o nella seduzione di arabeschi o viluppi vegetali, il colore è il battito che echeggia la vita; e il silenzio lo amplifica e laddove i grandi uccelli, sui grandi alberi dai grandi frutti occuperebbero volentieri la scena è il ritmo cromatico che ci emoziona e ci rimbomba un mondo che non è quello che vediamo; così nelle fruttiere stracolme di ogni blu, dove è solo la luce a denunciare il mistero irrisolto, o nel sensuale aprirsi carminio di melagrane su un tralcio è sempre il colore che dice “io sono” come in un credo antico. Un colore turgido, sensuale, rotondo; un colore martoriato, graffiato, frugato. Comunque esso sia, ha un effetto sinestetico: lo senti, lo tocchi, lo assapori.
Ed è questo il motivo per cui alla fine non vedi più Picasso, né il Salento, né l’infanzia impacchettata come le tele che un giovanissimo Pignatelli portava in giro da mostrare a galleristi e critici; non vedi più nulla perché tutto coesiste e si risolve nell’unica figura realistica presente: quella dell’Artista stesso. Qui però qualche dubbio ci sta. Che sia realistica intendo. A ben guardarlo, infatti, mentre da un ritratto ti fissa da dietro gli occhialini tondi nei panni di Toulouse Lautrec, il dubbio ti viene che sia un satiro dispettoso anche lui, o un Peter Pan irriverente che mentre tu ti affannai a cercargli un senso ti ha già trasportato nella sua isola che non c’è.

                                                        
   (Intervento di Anna R.G. Rivelli all'antologica del maestro Pignatelli "Uno plurale"
Museo Provinciale di Potenza 25 marzo 2017)





ALFREDO RAPETTI MOGOL - Se fosse poesia

“La scrittura pittorica non ha una lingua – mi dice continuando a passare il nero sulla tela - e perciò stesso non ha barriere culturali”; e infatti il rigo che  scorre sotto i miei occhi sembra conoscere la risposta ad ogni domanda e comporsi esattamente per me che in quel preciso istante lo sto leggendo.


Eppure quella di Alfredo Rapetti Mogol è una pittura misterica  per addentrarsi nella quale necessita l’iniziazione dell’abbandono alla sensazione pura, ad una sorta di istinto primigenio che svela in ogni opera una pagina di quel grande libro dell’Universo in cui la soluzione dell’enigma nasce prima dell’enigma stesso. E le sue sono pagine in cui ci si vede come allo specchio, pagine che frugano negli sguardi, che bisbigliano una verità che ti riaffiora dentro, mistiche ma non dogmatiche, presenti ma senza tempo, e di una silente imperiosità di verbo capace di scardinare la logica e ritrascrivere il Caos in un perfetto rigore che tuttavia non lo snatura. Dominano l’oro, il nero, il bianco; gli altri colori sembrano nascere dalla rifrazione di una luce intrinseca nelle cose in cui l’artista soffia divino spirito, dio come un dio, uomo come un uomo. La parola in fondo assente, la profonda sonorità del silenzio ed il rigore cromatico sono le tre persone del mistero trinitario di questo culto in cui la bellezza si percepisce concreta e inafferrabile, esoterica forma per il più  essoterico dei messaggi. Se fossero poesia, queste opere sarebbero vento tra i capelli del giorno; se fossero suoni, sarebbero gli occhi socchiusi sopra i sogni di un figlio; ma se fossero una qualsiasi lingua, sarebbero le lacrime che non si trattengono nella stanza “Ches ein eici eli”.

(da Sineresi, il diritto di essere eretici n.1)






Giulia Valentino "La vigna"
GIULIA VALENTINO

Le parole fuggono dal quadro, si riversano sulla carta, traducono un filo sottile di pensieri e si stupiscono nell’immagine muta. La realtà, solo la realtà è nelle tele di Giulia Valentino. Una realtà silente, un fotogramma del film di una vita, di una storia, di un luogo, che inceppa la pellicola per rimanere eterno. Non una parola, però; non un suono. L’incanto di una realtà vissuta, osservata minuziosamente, ma mai indagata, mai perquisita. L’artista non cerca risposte; risponde piuttosto all’ansia della scoperta con la serenità della contemplazione, dà voce alle ombre proiettando la luce, esorcizza il moto perpetuo di questa era nell’attesa paziente di un evento qualsiasi che – la pittrice lo sa- non ci sarà mai, semplicemente perché l’evento è già il vivere di ognuno.
E così può capitare di smarrirsi nel precipitarsi di un viottolo sghembo dentro il cuore del bosco; di smarrirsi tra le spighe, nei gialli, nella schiva sinfonia dei verdi, ma senza aspirare al cielo, un cielo tenue, lontano, disabitato, un sigillo polveroso sulla fantasmagoria dei monti, sul dolore dei salici, su quel bonario digrignarsi di baracche. La terra, la terra, non il cielo è il mistico richiamo di Giulia; la vibrazione di un prato, l’arabesco di una ringhiera, l’incerto alfabeto delle antiche pietre, il passo precario di una donna, la maniacale perfezione di una natura morta, viva però di freschezza, di luce, di brezze odorose, di casa. Lo sguardo dell’artista sembra abbracciare con lo stesso cuore tutte le cose, gli animali, gli uomini, il sole, la neve, la venatura di una soglia, la tinozza coi fiori, una chicchera bianca quasi dissolta nella luce, l’oscuro arrampicarsi di una grondaia come la proiezione cupa di un campanile che domina l’inverno e accende il cielo; una profonda humanitas, insomma, che blocca il gioco di un figlio, vela tra le vele, ricordo e proiezione di sé, ma che con medesima imperiosa tenerezza ritrae in primo piano un’agnella in nobile posa rinascimentale, lo sguardo altero, una dama quasi, cui la bimba pensosa è compagna.
Nessuna volontà di stupire, dunque, nessuna domanda, ma solo il mondo tal quale, il mondo com’è e così come assai spesso non si riesce a vederlo.

(da "Appunti per Giulia" aprile 2011)






Giovanni Cafarelli "Cuore di terra"
GIOVANNI CAFARELLI

Sconcertante e godibile, accattivante benché di non facile né immediata lettura, la pittura di Giovanni Cafarelli è tra gli esempi più completi e maturi dell’espressione artistica della Lucania contemporanea.  La sua opera è, pertanto, il risultato di una stratificazione di linguaggi, di emozioni, di periodi segnati da colori prevalenti e da inquiete mutazioni di linee, consolidata dalla maturità e inquadrata dalle diverse angolazioni dell’anima.   E così ogni quadro è racconto, un racconto onirico dove il tormento si compiace del suo non essere, dove il passato e il presente si alleano contro le incertezze del poi, dove le forme si cullano nella consapevolezza della mutevolezza che le plasma.  L’assoluto è nel paesaggio che in realtà non c’è, eppure appare di continuo come in un rapido riflesso di vetro, come in un pensiero che non ci si accorge di aver inseguito, come in un appunto della memoria; è nel silenzio finto del nero che partorisce sprazzi di luce, che evoca nenie ed urli, che avendo potere di coprire tutto, tutto esattamente ha potere di racchiudere in sé. Anche l’oro, aspaziale e atemporale per sua natura e tradizione, raramente invade gli sfondi, ma dilaga piuttosto a riempire le forme e a negare così la loro concretezza pur disperatamente ancorata agli intagli, alle ombre, ai graffi del colore. Il bianco, il rosso hanno,invece, la purezza del risveglio; sono la parola certa che ti fa vivo, il raggio che al mattino non vorresti, ma ti spalanca il giorno, la chiave fredda e ruvida di casa.                                                        

(da "Dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine" 2008)







Un'opera di Enzo Bomba
ENZO BOMBA

Una duplice visione dell’esistere, un mondo doppio che paradossalmente sembra conciliarsi solo nella contrapposizione e nello scontro è ciò che realmente vive, ammansito e quasi nascosto  dalla forte carica espressionistica e dagli esuberanti cromatismi, nell’opera dell’artista Enzo Bomba il quale, con un linguaggio più personale e maturo (evoluzione e non contraddizione del passato) inquadra la sua avventura con lo sguardo curioso di Alice e la dissennata saggezza di Amleto. Nei suoi quadri convivono realtà e fantasia, malinconia e gaudio, tradizioni ed entusiastiche proiezioni; i suoi piani si dividono in maniera a volte netta, divergono nel racconto, si estraniano nei colori; altre volte si intersecano duttili e sguscianti fino a farti perdere il filo e condurti a un esilio della ragione. Ed è questa la scelta evidente, quella del nonsense, quella dell’apparente incongruenza che è invece l’irriducibile limpidezza del vero, l’esatta rappresentazione del reale nei suoi aspetti molteplici e contrastanti, compatibili solo nella rassegnazione di un comune destino di sopravvivenza. Ed ecco che l’immagine oscilla tra l’epica imponenza di alcune figure ed il ritmo frantumato e svelto di certi sfondi, di certi piani dove si ripete una congerie di forme simboliche (casette, occhi, ghirigori, ruote…) o soltanto di colori come in un magmatico fluire di pensieri liberati nell’Es più profondo e per questo non inquadrabili, e non per questo illogici e irrazionali.
C’è l’uomo, tutto l’uomo in queste opere, nei suoi aspetti più semplici e in quelli più problematici, nel suo essere parte di un universo che tinge di sfumature medesime animali, persone e cose (Il cavallino, Amanti, Rosso in libertà) così come nel suo ritrarsi spettatore sereno o attonito di un mondo che si fruisce o che si teme (Paesaggio con ciclista, Città blu); c’è l’uomo nella sua stessa  capacità di ribaltare i piani prospettici – come in Paesaggio lunare dove l’astro è un grande occhio che domina un paesaggio ibrido – o ancora nel titanico solipsismo del suo sentire (Bambina triste, La Gioconda sui tetti, Il sassofonista rosso).
  L’effetto finale è quello dello sconcerto che ti lascia senza la risposta che cercavi, senza dirti perché nell’impostazione classica di una Kyriotissa irrompono prepotentemente linguaggi diversi, idiomi nuovissimi che stentiamo a comprendere.
  E’ questo Enzo Bomba, il nostro Edward Lear che ritrae, descrive, sorride e ci lascia sospesi alla ricerca di un senso dentro un ritmo che ci è già piaciuto.

(da "Limerick" 2004)







Gerardo Corrado "Uomini in fuga"
GERARDO CORRADO D'AMICO

Se un filo conduttore si volesse individuare, una sorta di sentiero principale intorno a cui dispiegare l’intero paesaggio poetico corradiano, quello indubbiamente sarebbe l’uomo. L’intera produzione dell’artista, infatti, al di là della inesauribile ricerca del bello e della perfezione che pure a lui appartiene totalmente, appare dominata da una inequivocabile visione antropocentrica, solidamente sostenuta dalla concezione filosofica dell’uomo misura di tutte le cose, che tende a sfociare da un lato in un antropomorfismo quasi paradossale, dall’altro nell’idea tutta romantica del rifiuto quale estrema affermazione della propria libertà. Se non è difficile, infatti, percepire in queste opere il ricordo dell’antica pittura pompeiana o la suggestione di culture e paesaggi lontani e diversi, o ancora l’eco di Monet che rende sonorità piena alle cromie, di certo non può sfuggire la duttilità con cui la sagoma umana si presta allo straniamento e, pur senza snaturarsi, riesce ad essere sole accecante in La rosa del deserto, l’anemone blu o rosso di Sirtaki, o ancora zucca o rosso pampino di un baccanale in Halloween. Pure è chiara, d’altra parte, la sottolineatura di un dinamismo, che è insieme fisico e mentale, cui l’artista riconosce la capacità di sottrarre l’uomo a qualsiasi forma di schiavitù. Così la sagoma, che a volte come in Il tuffatore tende a minimizzarsi in una virgola di colore, si appropria dello spazio con il suo movimento, spesso alludendo alla perfezione della circolarità, ed egemonizza il discorso non lasciandosi  inglobare dalla corposità di uno sfondo in cui la pennellata, ora densa e sinuosa, ha improvvise deviazioni che frugano, esaltandola, l’immagine in primo piano.
La presenza dell’uomo, dunque, è immane e consapevole cosicché anche l’errore, la caduta iniziale, si tramuta in un volontario abbandono della scena, ultimo atto di coraggio e di salvezza di cui l’uomo, eroe e fanciullo insieme, si rende protagonista (Uomini in fuga).
E a un mondo che travalica la fisicità dell’essere per insinuarsi nelle profondità della psiche accennano, con la loro carica simbolica più che con la loro autonomia iconografica, forme diverse (i cavalli, i Pinocchio) che sintetizzano l’avventura mitopoietica dell’uomo.
L’idioma che concretizza la coerenza del pensiero dell’artista è il colore che si frantuma come rifratto, che vibra, che vive, che gorgoglia nel fondo una voce propria, che straripa su una cornice che non circoscrive ma estende l’eco, lo sguardo, la meraviglia dell’uomo.

(da "Dentro questo universo" 2004)







Un'opera di Pietro Basentini
PIETRO BASENTINI

C’è sempre un paesaggio sulla tela di Pietro Basentini, un paesaggio che tende a definirsi in esatte geometrie di colori assoluti che si alternano e distraggono l’immagine in un desiderio di perfezione irrisolta e vicinissima. E’ forse una risposta al  “…quanto dista dalla luna questo mondo fatiscente…” che nella sua stessa struggentissima Figlio mio approda ad un niente consapevole e maturo. Non si può sdoppiare il suo alfabeto, non si può comprendere la sua lingua separando toni e cromie, prospettive e ritmi; l’artista Basentini è un poliglotta di marcato accento lucano, uno che vive il dono mistico della babele ricomposta e univoca nella sua poliedricità. Il suo colore è stupefatto e pieno tanto quanto la sua voce posseduta da echi ancestrali, le sue figure si modulano sul pentagramma del reale con la delicata forza di un arpeggio, con la cadenza di una Nia, nia, nia tenace e stanca.
 C’è tutto un mondo nella sua mancata scelta che è scelta perentoria, nel suo viaggio eroico senza porti sicuri, nei suoi contrasti pieni di saggezza. Ci sono cieli ricamati, incantati sopra notti di fiaba e campi gravidi, cieli sempre veri, così veri da non poter resistere alla smania di fuggire nel vento tra i rami protesi, di farsi vessillo a quel “terra” di naufrago ammaliato dal canto. Ci sono strade che vanno e metafore di ponti lanciati tra l’incontaminato e l’uomo e le sue case affastellate e vive di sguardi ansiosi di finestre. Ci sono donne che si fanno orizzonte nella sospensione e nell’assenza di occhi che vagano immobili in altre dimensioni, e madonne finalmente esplose nel bianco lacero di un’illusione, finalmente donne di urla crude senza misura.

(da "Pietro Basentini"  Mostra Cappella dei Celestini. Potenza 2002)





Un'opera di Rocco A. Guarino
ROCCO ARISTIDE GUARINO

La nitida evidenza della sintesi estrema è ciò che senza mediazioni caratterizza l’espressionismo sobriodell’artista Guarino. La sua opera, che pure è negazione totale di qualsiasi costruzione concettuale, è in se stessa l’immediatezza di un pensiero di delirante ed ossessiva coerenza: nulla davvero esiste se non l’uomo e l’uomo totalmente si conclude nel suo essere “animus”. Il volto per ciò stesso è tutto e, più ancora del volto, i grandi occhi di intensa fissità diventano baricentro di ogni figura e riemergono dal tumulto di qualsiasi eccesso con il loro immutabile ed imperturbabile equilibrio. Il ritratto –ritratto non di singoli, ma di tutta un’umanità- è tormentato dall’esasperazione claunesca di certi particolari (la perfetta sfericità degli zigomi, l’esuberanza dei nasi, l’essenzialità o la ruffa infantile delle chiome), ma sempre è bilanciato dalla stabilità di quello sguardo che accomuna nella sua inconsapevole e semplice bellezza le più antiche madonne lignee lucane e i divini fantocci orientali che popolarono i sogni e le stanze di Rocco. Quegli occhi, sempre rivolti a chi guarda anche quando il viso è rappresentato di profilo, intrecciano contemplazione e domanda sottraendo al resto ogni voce. La bocca, infatti, si accende quasi sempre di rosso, ma resta inespressiva, si piega in smorfie amare o si svuota nel nero di una esclamazione che non è mai di meraviglia. Il corpo è assente anche quando c’è e si riduce ad un ingombro piatto ed essenziale a volte finanche privo di arti. Significative eccezioni sono le immagini femminili e l’icona di un sacerdote; nelle prime l’imponente fisicità, paragonabile a quella di certe rappresentazioni di animali dello stesso Guarino, seppure comunque risolta nel protagonismo del volto, rende in maniera evidente il diverso rapporto sensoriale; nella seconda la sacralità dell’impianto strutturale coinvolge tutto l’essere nello spirituale riverbero degli occhi.
Ribadito ed esplicitato il medesimo concetto riaffiora nella serie delle lische. La figura qui, riproposta nelle diverse cadenze che costituiscono l’unica variazione dell’identico tema, si spoglia evidentemente di ciò che è superfluo –il corpo, appunto- per risottolineare nell’orbita vuota la centralità della mente. Ancora una volta il corpo, quello diafano e immateriale della lisca come quello trascurato e maltrattato dell’artista stesso, diventa ingombro sconsiderato e leggiadro e si risolve in esplosione di colore dal quale la figura sembra distaccarsi come frammento o del quale la figura diventa la trama su cui intessere ricordi d’oriente.
E il colore è sicuramente protagonista vivissimo di queste opere, l’artista predilige la tinta forte e pura, la sfumatura fantasmagorica, le macchie contrastanti ed inedite al tema trattato. Nel loro violento proporsi, però, i colori più che sferzare concludono il pensiero e si impongono nella loro autonomia capace di eloquio anche laddove un oracolo traccia parole vaghe sul foglio. E sono gli stessi colori che in altre opere prendono completamente il sopravvento annullando qualsiasi altra traccia così come nella vita le troppo accese cromie dell’esistenza di Rocco oscurano spesso le mille espressioni del suo volto, la dolorosa dignità del suo tradire un corpo carceriere sconfitto dal sogno di un uomo.

(da “Gli occhi di Ra” 2001)







Michele Giocoli "Paesaggio"
MICHELE GIOCOLI

Una natura ridente ma quasi trasognata, di sobria imponenza ma pressocché assente a se stessa è ciò che subito e con prepotenza appare nell’opera di Michele Giocoli. Tutto questo, però, è solo il risultato di un abile gioco illusionistico con cui l’artista riesce a far sembrare vivo e presente quanto in realtà esiste solo nell’estrema dimensione della rimembranza nel cui lontano, indefinito e vago già il Leopardi intravvedeva l’unica possibilità di poesia.
La campagna di Giocoli è nitida, quasi categorica nel suo presentarsi così e non diversa, squillante e ripetitiva come uno stornello, spudoratamente semplice nella esasperata riproduzione di pochi, medesimi elementi, così accecata di luce eppure così evanescente nella fuga di linee prospettiche che ne costituiscono lo straniamento.
I colori corposi, vivaci, giustapposti per macchie in contrasto sono un voluto errore di rifrazione, una sorta di fata morgana di un predominante sentimento di malinconia che solo giustifica quell’atmosfera sospesa e quel silenzio che pervadono l’opera intera di questo artista. Non ci sono parole, infatti, negli azzurri che sfumano sopra i monti, nei viali che procedono per proprio conto, nei filari del bosco; non ci sono parole nemmeno tra le donne in festa, nell’intimità tra madre e figlia, nel lavoro dei contadini, nella fiera che tace ogni suono. C’è, invece, un timore di oblio che indica alle spigolatrici un orizzonte lontano e pone negli occhi di una giovane donna o di una bambina leggiadramente agghindata una irrisolta nostalgia.
Tutto questo silenzio, però, ha qualcosa di sacro, è la quiete del tempio dove niente è più vero di ciò che non c’è e una passione lacerante pulsa di continuo come un cuore rosso di papaveri in un vaso di coccio. Le grandi ombre, perciò, non fanno paura; esse rappresentano l’oltre, l’ignoto che ha tuttavia radici amate e certe, rappresentano il futuro che, qualunque esso sia, non potrà sottrarre il passato. E così una donna ed un asino si accingono insieme al cammino su una strada conosciuta e sicura e poco importa loro che in lontananza gli alberi siano spettri nelle nebbie rosate o che d’improvviso affiori Notre Dame.

(da “Sull’ara dei papaveri” 2001)






Un'opera di Antonietta Acierno
ANTONIETTA ACIERNO

Il fluire ininterrotto del discorso pittorico di Antonietta Acierno ben si evidenzia nell’uso sapiente della sfumatura che, nell’incastro e nella giustapposizione dei piani prospettici, sa creare un effetto di piena naturalezza. Eppure sotto l’apparente serenità dei suoi paesaggi, che sono reali sebbene sorpresi nell’incanto fuggevole di istanti, l’artista non riesce a celare l’irruenza di un sentimento, la passione che profondamente la lega all’assetto della sua contemplazione. Così se è lo sguardo d’insieme che sembra prevalere, la presenza del particolare è resa evidente dalla pennellata incisiva e dal continuo vibrare del colore che è anima ed animo di questa immanenza.

(da “Et paulum silvae”  1999)







Un'opera di Salvatore Sebaste
SALVATORE SEBASTE

Il definito con la sua noiosa ovvietà non sembra affatto rientrare nell’interesse di Salvatore Sebaste; ciò che suscita curiosità, e dunque merita attenzione, è , infatti, il processo del divenire, quell’originale percorso che culmina nella definizione di un mondo scopertamente fruibile.
L’artista Sebaste, invece, sacerdote dell’ignoto, precorrendo la dimensione temporale, ricerca nell’anima delle cose la ragione della loro stessa esistenza, ne anticipa la conoscenza, ne gode prima ancora che altri possano soltanto percepirle.
Anche lo spazio è delineato a volte solo per essere contraddetto o è annullato completamente e la materia diventa soltanto uno smarrito frammento di chissà quale universo.

(da “Et paulum silvae” 1999)







Un'opera di Nino Tricarico
NINO TRICARICO

La suggestione che la materia con le sue infinite possibilità esercita sull’artista Nino Tricarico è particolarmente evidente nella sua recente produzione. Il gusto per la tattilità, l’estasi di onnipotenza che la creatività sa generare si percepiscono senza mezzi termini nelle forme che sembrano plasmarsi sotto gli occhi di chi le guarda, già vive nella loro tensione seppure in attesa del soffio di un dio. Persino il colore si propone in una sua più che sensibile corposità e ghermisce avido la terza dimensione, occupa il piano con prepotenza, si presenta duttile ad essere graffiato e distrutto solo per potersi rigenerare.

(da “Et paulum silvae” 1999)







Un'opera di Marilena Troiano
MARILENA TROIANO

Se tutto femminile è il modo espressivo di Marilena Troiano, il suo messaggio non perde i toni dell’universalità e sa affermarsi con delicata prepotenza. La donna intesa come entità spirituale di doppia valenza, e la donna delle debolezze primordiali e della generosa moderna affermazione è presente tutta nelle opere di questa artista che sottolinea storie già note o bisbiglia segreti inaccessibili con regale perentorietà. Di forte ispirazione rinascimentale, la pittura della Troiano colpisce per il suo linguaggio senza mediazioni, dove la bellezza è e resta tale, il racconto si presenta nella sua limpidezza, l’allusione, quando c’è, si offre alla lettura in una sua affascinante, ma accessibile misteriosità.

(da “Et paulum silvae” 1999)







Mario Vasta "Terremoto"
MARIO VASTA

Che sia sorpreso nella sua più quotidiana dimensione oppure completamente idealizzato, l’essere umano sembra avere un ruolo di preminenza nell’opera di Mario Vasta. Qui, infatti, l’uomo si offre, come maschera di se stesso, a smentirsi nella sua sofferenza così come nella sua grandezza, e l’artista, che solo apparentemente lo indaga, lo protegge in realtà svelando ogni sua debolezza, sottolineando ogni sua emozione per poi renderla poco credibile con la troppo scoperta evidenza del discorso, con l’annullamento della sfumatura poetica a vantaggio di una voluta prosaicità. Il colore tanto quanto la forma tradisce la finzione, ma non svela l’arcano.

(da “Et paulum silvae” 1999)








Teri Volini "Balcone"
TERI VOLINI

Il creato in tutti i suoi aspetti si anima nelle opere di Teri Volini dello stupore dell’artista che ad esso si abbandona con animo di fanciulla.
In una sorta di gioco ideale, come in un grande puzzle, la natura è frantumata e ricostruita con minuziosa attenzione, ma l’immagine scelta è sempre quella cui la memoria ha donato immortalità ed il cuore universale favella. Non a caso l’insieme è variopinto e vario, ma il particolare, apparentemente annullato a vantaggio dell’accesa cromia, è in realtà spesso riproposto e ripetuto quasi all’infinito cosicché solo un fiore diventa un’ interminabile primavera e in un fiotto di luce c’è già una perenne notte di stelle.

(da “Et paulum silvae” 1999)






Un'opera di Antonio Masini
ANTONIO MASINI

Profondamente lirica nei toni e nei modi espressivi, la pittura di Antonio Masini vive in una sorta di appagante sospensione tra realtà e sogno, cosicché tutto quanto appare è individuato nella sua specificità, ma subito trasformato in altro da sé.
La morbidezza delle forme, il gusto per un colore reso intenso dalla molteplicità di sfumature contribuiscono allo straniamento dal tangibile e dal consueto; il quotidiano viene così proiettato in una nuova e indefinita dimensione in cui ogni cosa può vivere innumerevoli vite senza mai perdere la propria credibilità.

(da “Et paulum silvae” 1999)







Un'opera di Nicola Lisanti
NICOLA LISANTI

Se con un solo aggettivo si potesse definire l’opera di Nicola Lisanti non si potrebbe parlare per lui che di pittura cosmogonica. Il caos, infatti, inteso nella sua originaria accezione come matrice del mondo, l’abisso che preesiste all’ordine e che improvvisamente si anima del furore divino è tutto nelle immagini che l’artista imprime sulla tela trafugandole all’attimo stesso della creazione.
Se l’immagine è perciò individuabile, ma non definita, il colore è svincolato dagli schemi, è materia fluttuante che cercando la sua aggregazione precede l’idea.

(da “Et paulum silvae” 1999)







Un'opera di Nicola Filazzola
NICOLA FILAZZOLA

In un’atmosfera assorta, ma disincantata sorge assolata e forte l’immagine pittorica di Nicola Filazzola.
Rigore e rigoglio si declinano contemporaneamente in paesaggi e figure che recano indelebile la suggestione dei luoghi e nondimeno il fascino della storia che a quei luoghi assomiglia, che di quei luoghi –vicini e cari all’artista- ha sempre sottolineato l’invitta dignità e la concretezza scevra d’illusione.
Arido solo nell’apparenza il paesaggio, opima, eppure quasi smagrita nell’essenzialità estrema dei tratti, la figura dicono di una fede incrollabile nell’offerta della natura e nelle possibilità dell’uomo.

(da “Et paulum silvae”  1999)








Arcangelo Moles "Diario del rivoluzionario dolciario"
ARCANGELO MOLES

Una fanciullezza dichiarata e impenitente, un’ingenuità sapiente, il rimpianto sottile per un gioco che si sa tale senza mistero: null’altro e tanto ancora in questo mondo ripetuto all’infinito ma che è sempre, tuttavia, altro da sé.
Arcangelo Moles opera come in un incantesimo, anzi all’esterno di un incantesimo che egli stesso crea attimo per attimo per contemplarlo poi, e per disfarlo e per rifarlo senza remore o indugi, consapevole fino in fondo eppure fatalmente abbandonato all’euforia del suo inganno. Il quotidiano nella sua apparente insipienza è protagonista indiscusso, è colto di sorpresa, è bloccato e reso eterno nella sua più arcana banalità; il quotidiano ti confonde e si confonde in un oggetto qualunque che si sdoppia o che semplicemente si propone in una sorta di finta trascurata indifferenza, come le forchette che si specchiano nell’acqua di un bicchiere, i piatti antichi su una mensa immaginaria, il ritratto prezioso manomesso dall’insolenza di un fanciullo: un disordine perfetto, insomma, che è e non sembra tale.
E se è vero, come afferma Johan Huizinga, che ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero, Arcangelo Moles ferma il mondo un istante prima di spiccare il volo.

(da “Et paulum silvae” 1999)








Un'opera di Gaetano Ligrani
GAETANO LIGRANI

Verso quale universo si spinga curiosa la scanzonata indagine di Gaetano Ligrani non è lecito stabilirlo; certo è che nelle sue opere c’è come un appagante sentimento di libertà ed appena al di là delle sue colonne d’Ercole il timore del naufragio improvviso cede il posto all’inatteso spalancarsi di dimensioni sconosciute in cui il colore, nella sua motilissima vibrazione, è irriverente ed indiscusso protagonista.
Il paesaggio sembra generarsi da un’onda o da molteplici gorghi gemelli; il paesaggio sarebbe irreale se di tanto in tanto un albero spoglio, un volo o solo la cubatura di una costruzione non ne determinassero un’esistenza corporea ed insinuassero il dubbio che l’infinito che l’uomo vagheggia possa essere solo il suo piccolo definitissimo universo.

(da “Et paulum silvae" 1999)








Un'opera di Felice Lovisco
FELICE LOVISCO

Un linguaggio immediato e pregnante è ciò che caratterizza sempre l’opera di Felice Lovisco. La non casuale assenza di strutture concettuali alogiche e la corposità del colore proposto in tutta la sua più sfrontata materialità inventano, infatti, un lirismo di estrema soggettività nel quale i dversi temi ispiratori assumono caratteristiche di robustezza inconfondibile.
L’umano, in tutte le sue diverse sfaccettature, alimenta continuamente il fuoco creativo dell’artista il quale appare imbevuto in ogni sua fibra delle suggestioni della terra natia che egli ama e vive nel suo innegabile dualismo; la sua terra è, infatti, illustre figlia della Magna Grecia, ma anche terra da lavorare con le nude mani dei contadini, da gustare nei suoi frutti poveri e saporosi. La sua terra è, insomma, il passato ed il presente, l’eccezionale ed il quotidiano senza soluzione di continuità. Il vivere è, infatti, tutto concluso in un unico cerchio che non è barriera che esclude, ma abbraccio che unisce tutto quanto della umana esistenza fa parte, che ingloba in un’unica dimensione ciò che di solito siamo abituati a catalogare in spazi e tempi differenti. L’antico reperto, un frutto, un oggetto usuale, il divino ritrovano nei dipinti di Lovisco un’armonia sorprendente. Qui tutto è immanenza: una Vergine bizantina abbandona l’oro etereo per stagliarsi su una mensa contadina, una Kyriotissa sembra sbiadire nell’immagine di un’arcaica dea della terra e non sdegna l’omaggio di un intruso ramarro, una sedia impagliata è già un trono e profili di marmo, di gesso, di argilla sono antiche vestigia, ma anche cose comuni, soprammobili scialbi di gozzaniana memoria. Non c’è rivalità né distinsione di casta; tutto ciò che appare sancisce la sua dignità ed anche l’uomo è cosa tra le cose e sa essere paesaggio nella magia di un chiaro di luna, animale nell’avvinghiarsi di un destriero, dio nella dolcezza di una maternità spiata da una finestra.
In tutto questo –quasi ritornello ammonitore- incessantemente ritorna il motivo dei frutti, simbolo di errore e di gioia, doni preziosi, fonti di vita; su tutto questo il colore, le estese campiture, le vibrazioni temerarie dei toni squillanti, il rosso. E il rosso in Lovisco sta a definire e riassumere un credo, un credo che parla di vita, di forza, di amore.

(da “Terra donna dono” 1998)